Il canto dell’attesa
Io canto per consumare l’attesa:
annodarmi la cuffia, richiudere la porta di casa,
non ho altro da fare
finché, al suo avvicinarsi,
ci facciamo incontro al giorno,
e ci raccontiamo l’un l’altro la storia
di come cantammo – per scacciare la tenebra
(Emily Dickinson, da Quel che sappiamo dell’amore, ed.Acquaviva,2001)
Quanto sono attuali i versi di Emily Dickinson, oggi, al tempo del Covid19.
Un’umanità reclusa nelle proprie case per proteggersi dal contagio di un virus infido, impegnata nella narrazione di sé in un tempo in cui il fare assume un significato diverso dal passato. I balconi e le finestre sono luoghi d’incontro con l’altro, spiragli di condivisione della vita, anche con canti dirompenti, che assomigliano ai cinguettii dei piccoli uccelli in gabbia che alzano il volume del loro canto per compensare la libertà negata. Emily Dickinson visse gran parte della sua vita all’interno della sua casa, scrivendo le sue poesie come canti intimi, ma anch’essi dirompenti, che attraversavano qualunque porta chiusa a chiave.
Una scelta, una necessità, un bisogno di difendersi dalla vita, un tributo alla sua creatività, alla solitudine abitata dall’amore per l’amore, idealizzato e impossibile. In questi giorni spesso ho pensato a Emily, una donna che nella sua reclusione volontaria ha abitato la vita nelle sue sfaccettature, pur rimanendo nella sua stanza. Oggi, il destino comune a tutti gli esseri umani è quello di ritirarsi dalla vita sociale per entrare in quella più intima, all’interno della stanza interiore dove è possibile ascoltare il canto della propria anima per, come scrive la Dickinson, scacciare la tenebra.
Sira Sebastianelli
psicologa-psicoterapeuta
www.sirasebastianelli.it